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Le “contraddizioni” dell’Iran e le contraddizioni di Obama

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“Pessimisti” e “ottimisti” nelle analisi sulle crisi mediorientali

Ottenuto il successo in Egitto, dove il più sicuro alleato di Israele, Mubarak, è stato alla fine emarginato, Obama attacca l’Iran di cui denuncia le presunte contraddizioni: da una parte il sì convinto della Repubblica islamica alle manifestazioni di protesta al Cairo, dall’altra un no altrettanto deciso di Teheran alle dimostrazioni di piazza di quella stessa opposizione che nell’estate di due anni fa cercò di scatenare invano una guerra civile, denunciando brogli elettorali inesistenti e finendo isolata rispetto alla stragrande maggioranza dei circa 70 milioni di cittadini iraniani.

Sarebbe facile rispondere che le contraddizioni vere sono quelle del presidente americano, che pretende di ridurre ad un’unica lettura – coerente con l’improprio paragone di certo opinionismo occidentale fra le crisi in atto in Medio Oriente e il crollo del muro di Berlino – movimenti di lotta diversi per estensione, contenuti e collocazione geopolitica: poche centinaia di dimostranti a Teheran contro le centinaia di migliaia della rivolta in Egitto; un’opposizione iraniana che reclama il rovesciamento di un governo promotore di una politica sociale attenta ai bisogni degli strati popolari più poveri, e una rivolta popolare contro una nomenclatura, cresciuta all’ombra di Mubarak, responsabile del saccheggio della ricchezza nazionale ai danni del popolo; la ferma posizione di Teheran, infine, in difesa dei diritti dei palestinesi e dei propri diritti nucleari – da cui lo scontro frontale con Israele – e dall’altra parte un regime egiziano prono alla politica israeliana di assedio, di rapina di nuove terre e di oppressione coloniale a Gaza e in Cisgiordania. Peraltro Obama ha sempre respinto al mittente le pressioni sioniste per una aggressione militare USA contro l’Iran, da cui la possibilità che la sua dichiarazione a favore di una opposizione di piazza iraniana screditata e isolata sia, più che mera illusione, un puro esercizio retorico volto a dare un contentino a Nethanyau e al suo governo, “feriti” per il dimissionamento di Mubarak.

Ma al di là di questo, le parole di Obama e in generale la momentanea stasi della situazione in Egitto inducono a una riflessione su cosa sia veramente accaduto e stia veramente accadendo nel mondo arabo dopo la rivolta tunisina e quella egiziana. Circola infatti di tutto: per alcuni il rischio è che si diffonda lo spettro di Al Qaeda a seguito delle crisi di Tunisi e del Cairo; per altri – che ragionano in termini di qualunquismo movimentista: chiunque si ribelli in quale che sia piazza allo “stato di cose presente” è un ribelle che vuole la “democrazia” e dunque va sostenuto – si è di fronte a un’onda inarrestabile di democratizzazione del Medio Oriente; per altri infine, siamo di fronte a un grande inganno, alla “tempesta perfetta” evocata dal segretario di stato americano, un Grande Fratello che tutto controlla e di cui il Consiglio militare che oggi regna in Egitto sarebbe la ferrea e longa manus.

Credo che bisogna analizzare bene la situazione.

1) L’idea di un’onda piazzaiola che si riversi dalle sponde del Nilo e da Tunisi fino all’altopiano iraniano e altre capitali dei paesi “cattivi” – idea che forse è dietro l’appello anti Ahmadinejad di Obama – non mostra sin qui alcuna consistenza: la Siria, con il suo regime verticistico ma coraggiosamente e coerentemente attestato su una posizione di difesa della dignita’ nazionale e di alleanza stretta con la nuova “internazionale” tricontinentale che ha nell’Iran un suo perno essenziale (mi permetto di rinviare al mio reportage del novembre scorso su Rinascita, fondato su una miriade di notizie che dimostrano la grande rete diplomatica e commerciale costruita negli ultimi mesi da Ahamdinejad in direzione dell’Asia, dell’America latina, dell’Africa e ovviamente del Medio Oriente) non ha sin qui subito contraccolpi dai fatti egiziani e tunisini. A Khartum, stesso discorso: il governo di Bashir è forte, e probabilmente guadagnerà ulteriore consensi nella popolazione araba del Nord dell’ex colonia britannica, dopo la scellerata secessione del Sud del gennaio scorso. Questo fatto può risultare incomprensibile a chi non capisce assolutamente nulla di etnicità, di democrazia e diritti di autodecisione nel crogiolo multietnico del continente africano, come l’eurodeputato PD Milana, che se ne è uscito recentemente auspicando adesso, dopo l’ “autodecisione” del sud, anche quella del Darfur. Terribile deriva qualunquista dell’ esponente di un partito che ha perso il senno andando appresso ai desiderata di Israele e del sionismo, per i quali la balcanizzazione dei paesi sovrani è sempre stata lo strumento principale di dominio sui suoi “nemici”, cioè in pratica su tutto il mondo “gentile”. Dovrebbe riflettere, il Milana, cosa vuol dire autodecisione in paesi popolati a macchia di leopardo. Non è bastata la Jugoslavia?

In altri paesi – Algeria, Yemen, ma anche la Serbia – la situazione è meno chiara ma di certo ci sono due fattori che spiegano la diversità di reazioni agli eventi egiziani e tunisini: il primo riguarda il consenso sociale di governi capaci di evitare i contraccolpi interni della crisi economica internazionale grazie ad una politica non frontalmente lesiva degli interessi degli strati popolari più disagiati, o grazie a processi di sviluppo economico (è il caso anche del Sudan) che hanno elevato negli ultimi anni, sia pure relativamente, il tenore di vita delle popolazioni, o quanto meno delle cruciali popolazioni urbane.

Il secondo fattore è la coscienza diffusa in tutto il mondo islamico del pericolo Israele e dei suoi crimini, non solo nei confronti dei palestinesi: in alcune situazioni questa coscienza – negata o dimenticata da quasi tutti i commentatori occidentali, compresi i nostrani estremisti “antiamericanisti”-“antimperialisti” – è forte e capillare, come dimostra in Iran il recente raffinato e incisivo convegno sull’ Hollywoodismo, il ruolo cioè del cinema “americano” nel progetto di dominazione sionista versus tutti i paesi del mondo. Una ideologia antitaliana (siamo solo mafiosi), o antiargentina (Evita), o antiaraba e antislamica (Indiana Jones), o anticattolica (Codice da Vinci, Lutero) di potenzialità formidabile perché un film ben fatto vale mille editoriali e mille titoli di giornali.

In altri paesi la percezione del pericolo Israele è nella realtà quotidiana: la Siria – aggredita da Israele nel 2008 con un blitz antinucleare – rivendica il Golan dal 1967, e non ha mai ceduto su questo punto. Il gruppo dirigente sudanese ha ripetutamente accusato Israele (presente in Sudan fin dagli anni Sessanta, dai tempi cioè guerriglia sudista “Anya anya”) di sostenere le bande antigovernative del Darfur, come è nei fatti: come dimostra cioè la propaganda martellante di un inesistente “genocidio”, diffusa fin dalla metà degli anni Dieci dal Museo dell’Olocausto, dalla stampa americana, dalla lobby sionista USA o dal discorso di Elie Wiesel all’ONU di qualche anno fa. Sono fatti assodati, sia lo spazio che la radio israeliana offre ai “dissidenti” sudanesi sia l’accoglienza ai profughi del Darfur in Israele, apertura consimile a quella operata della metà degli anni Novanta nei confronti dei musulmani bosniaci.

Quanto al Cairo, la Palestina è ed è stata oggettivamente negli ultimi anni dentro la vita quotidiana degli egiziani: il Consiglio Militare si è precipitato a dichiarare il rispetto di tutti i trattati internazionali, per prevenire le paventate reazioni di Israele all’estromissione di Mubarak, ma questa presa di posizione “necessaria” non chiude certo il discorso. L’insofferenza per Israele sta ormai anche dentro l’Europa: Il Times di Londra ha sostenuto che il cambio di atteggiamento dello stesso governo londinese nei confronti di Tel Aviv, sarebbe intervenuto dopo la strage della flottilla sulla nave turca. Il fatto è che l’Occidente perde pezzi geopolitici a ripetizione per andare appresso ai bellicismi e all’oltranzismo israeliani. E dunque ecco il freno: ed ecco in tutti i paesi arabi e islamici la coscienza sempre più diffusa della enorme ingiustizia subita giorno dopo giorno, da ormai più di mezzo secolo, dai palestinesi. Veramente a Piazza Tahir non c’era l’eco, nella rivolta contro Mubarak, di quanto accade a Gaza, e della connivenza del regime con l’assedio dei palestinesi condiviso dal “faraone” e dal suo governo?

2) Ecco dunque gli altri due punti di riflessione: la dialettica USA/Israele in Egitto e in Medio Oriente, e le prospettive della rivoluzione egiziana e dei sommovimenti a catena iniziati con la rivolta tunisina. I due fatti sono collegati: solo chi “non vede” Israele, la sua centralità nella storia degli USA degli ultimi vent’anni (almeno: ma già Kennedy ne sapeva, e prima di lui Truman con la sua valigetta di 2 milioni di dollari offertagli da un lobbysta, perché una volta eletto Presidente riconoscesse il neo nato Stato di Israele) e la sua pericolosità estrema dal punto di vista della democrazia internazionale (la violazione costante del diritto internazionale in nome di un razzista diritto biblico), della sua democrazia interna (la discriminazione antipalestinese e contro gli immigrati, combinata col carattere teocratico del suo regime), e delle democrazie dei paesi occidentali (l’invadenza liberticida e a volte golpista delle sue lobbies); solo chi vive fuori dal mondo e pensa che Israele sia la “pedina” dell’ “imperialismo americano” in Medio Oriente, finisce per demonizzare oltre misura Obama e per vedere nel suo interventismo in Egitto un fatto assolutamente negativo, pericoloso, magari più pericoloso del vecchio status quo.

Un errore formidabile di analisi, sia in sé, sia per la non considerazione diacronica del processo messo in atto dalle trame della Casa Bianca.

In sé, perché comunque Obama ha colpito un alleato di ferro di Nethanyau, e dunque già questo non permette di parlare di operazione gattopardesca: si tratta invece di un altro pur piccolo tassello (a cui aggiungere il fallito attentato all’alias di Mubarak Omar Soleiman, di cui all’imbarazzato silenzio del portavoce della Casa Bianca in risposta ad una domanda precisa di un giornalista?) che va ad aggiungersi al complesso “curriculum” del presidente americano dalla campagna elettorale che lo ha visto vincitore – curiosa quell’allusione dell’allora sua concorrente Hillary Clinton all’assassinio di Kennedy – alla mezza crisi con Wall Street di cui alle cronache di alcuni mesi fa, alle pressioni sulla Svizzera dopo il G8 de L’Aquila, a caccia di evasori americani nei paradisi fiscali elvetici. Un nuovo passo in avanti che peraltro – questo dimenticano i “pessimisti” sugli eventi egiziani – ha alle spalle non la capacità di controllo sul Medio Oriente del “grande fratello” di Washington – secondo la favola raccontata dalla Clinton – ma al contrario la sua crisi verticale negli ultimi 5 anni almeno: prima la debacle in Iraq, poi la vittoria di Hezbollah del 2006, poi ancora la resistenza di Hamas a Gaza e la fine del kemalismo prosionista in Turchia. E’ una rivoluzione geopolitica quella che ha sconvolto e sta sconvolgendo Medio Oriente, Asia, Africa e America latina, con antiche alleanze USA che entrano in crisi, e che scivolano verso il campo della fermezza iraniana e della superpotenza cinese. Obama può aver pianificato quel che vuole, con i “suoi” egiziani istruiti nelle Accademie militari e nelle Università USA: ma a parte possibili delusioni alla Fidel Castro 1960, egli insegue una situazione sempre più pericolosa per la tenuta USA in Medio Oriente, non la precede e non la guida con assoluta certezza sui suoi esiti. Che riuscirà a controllare fino in fondo la sua manovra di recupero avviata al Cairo, è difficile a dirsi, perché a Piazza Tahir non c’era solo l’executive manager di Google Wael Ghonim, e nell’esercito egiziano non c’è solo il Consiglio Militare supremo.

Le incognite sono numerose: la situazione è in realtà in pieno movimento. Se il Consiglio Militare si rimangerà la promessa di elezioni fra sei mesi, è difficile pensare che le piazze egiziane non si riempiranno di nuovo: se ci saranno le elezioni i Fratelli Musulmani guadagneranno spazio, forza e visibilità. C’è peraltro un livello occulto su cui riflettere e riguarda, come ho già detto nell’intervista a Radio-IRIB, l’esercito. Se non è stata la CIA di Obama, chi ha ordito il fallito attentato contro Omar Soleiman? Esiste qualche altra forza organizzata dentro le Forze Armate? Sopravvive una memoria di Nasser e del nasserismo, non solo fra la gente che salutava i carri armati con slogan di fratellanza fra popolo ed esercito, ma anche appunto fra gli egiziani in divisa? Sappiamo ben poco su tutto questo. Giorni fa, una corrispondenza del GR 3 di Maria Gianniti citava il caso di soldati che avevano “gettato la divisa” per stare dalla parte del popolo: caso assai improbabile, probabile disinformatio invece, di chi teme che i soldati “dalla parte del popolo” continuino a stare dentro le Forze armate, pronti a difenderlo e a liberarlo secondo classica tradizione di tutto il mondo arabo.

Quello che è comunque certo è che i giochi sono tuttora aperti, e dentro la varietà di ipotesi che presenta oggi l’Egitto e più in generale lo scacchiere mediorientale, è impossibile pensare che prima o poi non ci saranno ricadute anche sulla drammatica situazione di Gaza, dove Hamas continua a resistere al disumano assedio israeliano. Di fronte alla fluidità del processo messo in atto dalla rivoluzione egiziana, assumere atteggiamenti di indifferenza e da scettici blu che tutto sanno e tutto hanno capito, francamente non mi pare abbia molto senso.

Meglio leggere con umiltà gli avvenimenti e cercare di seguirne con il massimo di obbiettività possibile gli sviluppi, senza ottimismi e pessimismi di principio.


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