Obiettivi e finalità della nuova politica estera turca
Il crollo dei regimi comunisti nell’Europa orientale (1989) e l’implosione dell’URSS (1991) fecero venir meno ad Ankara quella funzione geopolitica che per mezzo secolo era stato il perno della sua politica estera ed il punto di forza nei rapporti con Washington e l’Europa.
La fine del comunismo poneva sfide ma offriva anche l’opportunità di una penetrazione politica ed economica in aree da secoli precluse ai turchi: il Caucaso ed il Turkestan ex sovietico.
La scoperta di nuovi grandi giacimenti di petrolio e gas naturale nel Mar Caspio e nell’Asia Centrale “riesaltarono” l’importanza geopolitica dell’Anatolia, questa volta come corridoio energetico tra Oriente ed Occidente.
Il big bang geopolitico del biennio 1989-1991 avrebbe costretto Ankara a reinventarsi una nuova collocazione e funzione geopolitica in un contesto internazionale altamente instabile. Le sfide poste al paese dal nuovo ordine mondiale avrebbero trovato un’originale risposta con l’affermazione elettorale dell’AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo). La politica estera del governo Erdogan ha assunto una definizione più compiuta ed organica con la nomina a ministro degli esteri di Mehmet Davutoğlu (maggio 2009). Professore universitario, già consigliere per la politica estera di Erdoğan, Davutoğlu ha teorizzato il nuovo ruolo internazionale della Turchia in un libro dal titolo La profondità Strategica. La posizione Internazionale della Turchia.
Nell’opera l’accademico Davutoğlu ridefinisce il ruolo e gli obiettivi strategici di Ankara in un mondo post Guerra Fredda. Egli ritiene che la Turchia per la sua collocazione geopolitica a cavallo tra Europa ed Asia, per il suo passato imperiale e la sua eredità culturale, possa affermarsi come protagonista sia in ambito regionale che globale.
Davutoğlu teorizza il concetto di “profondità strategica.” Si tratta di una vasta area geografica (Balcani, Mar Nero, Mediterraneo Orientale, Vicino Oriente, Caucaso) nella quale la Turchia funga da elemento di moderazione e di stabilizzazione. Questa vasta regione corrisponde grosso modo ai confini dell’Impero Ottomano. Questo motivo ha spinto diversi analisti occidentali a parlare di “Neo Ottomanesimo.” In realtà la riscoperta della geopolitica ottomana è funzionale alla strategia di penetrazione e di esercizio del soft power messa in campo da Ankara.
L’AKP rappresenta gli interessi della nuova classe imprenditoriale anatolica, in particolare di quella dei grandi centri urbani di Konya, Kayseri, Gaziantep, Adana, Malatya. Soprannominati i ”calvinisti islamici” per il loro attaccamento alla tradizione ed ai valori islamici e per il loro spirito imprenditoriale, questi imprenditori sono portatori di interessi economici e di istanze politiche diverse da quelle delle classi imprenditoriali di Istanbul. A differenza della Tracia e dell’Anatolia occidentale, da sempre protese culturalmente ed economicamente verso l’Europa, l’Anatolia centrorientale ha conservato gli antichi legami storici, culturali e religiosi, con il Vicino Oriente. il nuovo imprenditore anatolico punta ad affermarsi nei mercati del mondo arabo, dell’Iran, delle repubbliche ex sovietiche del Caucaso e dell’Asia Centrale.
Il governo dell’AKP, quindi, nel ridefinire i nuovi indirizzi di politica estera ha dovuto tener conto delle istanze di questa importante fetta del suo elettorato.
Dal concetto di “profondità strategica” deriva il principio geopolitico di “zero problemi con i vicini.” Per Davutoğlu la politica estera turca deve creare lungo i propri confini un’area di stabilità e di pace tale da permetterle di dispiegare il proprio soft power. Per riuscire nell’intento Ankara deve assumere il ruolo di “onesto ed imparziale mediatore” ossia farsi promotore di un’azione mediatrice per la risoluzione dei diversi conflitti regionali.
Questa nuova politica estera è il risultato sia di fattori endogei che esogeni. Ankara è cosciente che l’ingresso nell’Unione Europea (principale obiettivo della sua politica estera) rischia di fallire. Di fronte all’atteggiamento ambiguo di Bruxelles ed alla decisa opposizione di Berlino e Parigi, percepisce il pericolo di rimanere isolata. Da qui la necessità di creare un’alternativa nel caso di un suo mancato ingresso nella UE. Ankara continua a ricordare a Bruxelles che il suo ingresso proietterebbe l’Unione Europea nel Vicino Oriente, nel Caucaso ed in Asia Centrale, regioni strategiche per le loro immense riserve energetiche e nelle quali la presenza della UE è marginale. La politica di “zero problemi con i vicini” quindi risponde anche a precisi interessi legati al settore energetico.
La stabilizzazione del Vicino Oriente e del Caucaso consentirebbe l’afflusso di petrolio e gas naturale (GN) verso l’Europa tramite la penisola anatolica. La Turchia verrebbe a trasformarsi nel crocevia del trasporto energetico tra Asia ed Europa e tra Mar Nero e Mediterraneo.
Ad oggi lo spazio anatolico è già attraversato da importanti gasdotti (Blue Stream e Baku-Tiblisi-Erzerum) ed oleodotti (Baku-Tiblisi-Ceyhan – BTC).
In particolare due gasdotti non ancora in fase di realizzazione: il Nabucco ed il South Stream (strategici per l’approvvigionamento energetico dell’Europa) dovrebbero attraversare la penisola anatolica o le acque antistanti le coste anatoliche. La realizzazione di uno dei due gasdotti consacrerà l’Anatolia come fondamentale rotta energetica tra l’Oriente e l’Occidente accrescendo di conseguenza l’importanza geopolitica della Turchia in Eurasia.
L’iniziativa di “Zero problemi con i vicini” ha dato i suoi migliori risultati con i paesi arabi e con l’Iran. La Turchia ha istituito un Consiglio di Cooperazione Strategica con Siria ed Iraq.
Con Siria, Libano e Giordania è stata creata un’unione doganale che prevede la libera circolazione di persone e merci. Da Trebisonda, sul Mar Nero, ad Aqaba, sul Mar Rosso, passando per Beirut ed Amman, potranno liberamente circolare uomini e merci.
Con la Russia e l’Iran, sono stati rafforzati i legami politici ed economici: Mosca e Teheran sono i principali fornitori energetici di Ankara che a sua volta esporta verso di esse i prodotti delle sue industrie manifatturiere.
La questione curda è diventata l’occasione per un riavvicinamento tra Turchia, Siria, Iraq ed Iran. Anche “l’Iniziativa Curda” lanciata dal governo Erdoğan nell’estate del 2009, nel tentativo di giungere ad una definitiva soluzione della questione curda (minoranza concentrata nel sud est dell’Anatolia) è parte dell’iniziativa di “zero problemi con i vicini.”
Nel decennio appena trascorso Ankara si è contraddistinta per l’ambiziosa politica estera e per i notevoli successi conseguiti nell’arco di pochissimi anni a volte in pochi mesi. I limiti di questa azione diplomatica possono essere individuati negli attuali rapporti con Armenia e Israele.
Mentre con l’Armenia agli iniziali progressi, culminati con la firma dei due Protocolli dell’ottobre 2009, è subentrata una fase di stallo, con Israele i rapporti dall’ascesa dell’AKP hanno registrato una serie di alti e bassi per poi deteriorarsi con l’Operazione “Piombo Fuso” nella Striscia di Gaza (dicembre 2008-gennaio 2009) fino a sfiorare la rottura definitiva in seguito all’attacco israeliano alla Freedom Flotilla (31 maggio 2010)
In entrambi i casi visioni diverse degli assetti geopolitici nel Caucaso e nel Vicino Oriente, interessi economici e pressioni di forze sia interne che esterne, sono all’origine dello stallo e della regressione delle relazioni diplomatiche.
Turchia – Armenia: un difficile rapporto a quattro
L’asserito genocidio armeno ed il Nagorno Karabakh (Artsakh in armeno) sono i due grandi ostacoli lungo la strada della normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Turchia ed Armenia.
La questione del genocidio armeno (1915/1916), volutamente dimenticata durante gli anni della Guerra Fredda per non creare imbarazzo ad un importante membro dell’Alleanza Atlantica, è riemersa dal dimenticatoio della storia agli inizi degli anni novanta in concomitanza con la rinascita dello Stato armeno (1991) e con il conflitto del Nagorno Karabakh/Artsakh (1988-1994). Ankara si è sempre rifiutata di riconoscere come genocidio i massacri degli armeni cittadini dell’Impero Ottomano avvenuti tra il 1915 ed il 1916.
Riconoscere che quei tragici eventi siano stati il risultato di un piano premeditato, getterebbe discredito sull’allora governo dei “Giovani Turchi” e indirettamente sulla stessa Repubblica fondata da Ataturk. Tuttavia rimane il sospetto che la questione del genocidio armeno venga utilizzata in alcuni ambienti europei per ostacolare l’ingresso della Turchia nella UE.
Il mancato riconoscimento del genocidio da parte turca si intreccia al conflitto per il Nagorno Karabakh/Artsakh. Gli scontri tra armeni ed azeri iniziati nel 1988 aumentarono di intensità in seguito all’indipendenza dell’Armenia e dell’Azerbaijan. Nel 1994 si giunse ad un cessate il fuoco che sancì l’indipendenza de facto del Nagorno karabakh/Artsakh. L’Armenia uscita vincitrice controllava il venti per cento circa del territorio azero.
Nell’aprile del 1993 Ankara, in segno di solidarietà con l’Azerbaijan, chiuse il passaggio di Doğu kapı/Akhourian, interrompendo le comunicazioni via terra con l’Armenia e rifiutandosi di stabilire relazioni diplomatiche con Yerevan. In tal modo Ankara sperava di ammorbidire la posizione armena spingendola ad intavolare trattative di pace con l’Azerbaijan.
Intanto nel 1992 in seno all’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) era stato creato il Gruppo di Minsk con lo scopo di preparare una conferenza di pace (mai tenuta) per la risoluzione del conflitto del Nagorno Karabakh/Artsakh.
Nei successivi tredici anni i vari tentativi di giungere ad una risoluzione della controversia non hanno portato nessun risultato concreto; gli stessi incontri al vertice tra i capi di Stato dell’Armenia e dell’Azerbaijan non hanno dato risultati di rilievo. Anche le relazioni turco-armene nello stesso arco temporale non hanno fatto registrare sostanziali passi in avanti.
Una svolta si è avuta all’indomani del conflitto russo-georgiano dell’agosto del 2008. Nella notte tra il 7 e l’8 agosto 2008 le truppe di Tiblisi invadevano la Repubblica separatista dell’Ossezia del Sud. La reazione russa fu l’invio immediato di truppe terrestri in aiuto degli osseti e l’imposizione del blocco navale alla Georgia. Il conflitto investiva anche la Repubblica separatista dell’Abkhazia. Il 15 agosto si giunse ad un cessate il fuoco tra le parti. Il 26 agosto 2008 la Federazione Russa riconobbe l’indipendenza dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia adducendo come precedente il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo avvenuto 17 febbraio 2008. Il conflitto modificava i confini politici della Transcaucasia con la nascita di due nuove entità statali riconosciute internazionalmente solo dalla Federazione Russa ma de facto indipendenti.
La guerra russo-georgiana è stato il primo conflitto esploso in Transcaucasia dal cessate il fuoco del 1994 tra armeni e azeri. In soli sette giorni di guerra la Turchia aveva potuto sperimentare l’estrema fragilità degli equilibri nel Caucaso meridionale e nel Mar Nero. Equilibri tanto più delicati poiché minacciavano i propri interessi economici ed energetici regionali.
Le operazioni belliche si erano svolte a poche decine chilometri dagli oleodotti e gasdotti del BTC (Baku-Tiblisi-Cehyan) e del BTE (Baku-Tiblisi-Erzerum). Inoltre i venti di guerra nel Mar Nero avevano generato apprensione per la sicurezza del Blue Stream, il gasdotto che collega la Russia alla Turchia attraversando il Mar Nero. Il conflitto aveva messo in pericolo le forniture energetiche non solo della Turchia ma anche dell’Europa. Non potendo utilizzare la strada più breve dell’Armenia, la Georgia è l’unica porta d’accesso turca verso i mercati dell’Azerbaijan e dell’Asia Centrale.
La Turchia, ritenendo il conflitto irrisolto del Nagorno-Karabakh centrale per la stabilità regionale, temeva che gli eventi bellici di agosto potessero avere conseguenze per lo status finale del territorio conteso. Il riconoscimento da parte russa dell’indipendenza dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia rafforzavano la posizione del Nagorno Karabakh/Artsakh e dell’Armenia che ospitava una grande base militare russa presso la città di Gyumri nel nord del paese ai confini con la Turchia. Una ripresa del conflitto, sebbene improbabile, avrebbe avuto conseguenze ancora più dirompenti per l’intero Caucaso del Sud e per gli interessi turchi nell’area. In questo contesto l’iniziativa turca è stata accelerata dal conflitto in Georgia, che ha dimostrato il bisogno di una reale sicurezza e stabilità e mostrato i reali limiti della politica di Ankara nella regione.
Fu la Turchia a prendere l’iniziativa diplomatica lanciando la cosiddetta “Piattaforma di Stabilità e Cooperazione per il Caucaso” allo scopo di istituire un nuovo meccanismo di prevenzione dei conflitti, di sicurezza multilaterale e di stabilità regionale, e che rifletteva l’obiettivo turco di garantire anche la sicurezza dei gasdotti ed oleodotti. Con questa iniziativa, che coinvolgeva tutti gli attori regionali, Ankara puntava, inoltre, ad evitare una possibile polarizzazione della regione con Russia, Armenia ed Iran da un lato e Turchia, Georgia ed Azerbaijan dall’altro.
Il riavvicinamento tra Turchia ed Armenia è quindi parte della più ampia iniziativa regionale intrapresa da Ankara all’indomani del conflitto russo-georgiano.
Nel settembre 2008, ad appena un mese dal conflitto, il presidente turco Abdullah Gül si recava a Yerevan in occasione di un incontro di calcio tra le nazionali di Turchia ed Armenia valido per le qualificazioni ai mondiali calcio del 2010. Gli incontri diplomatici dei mesi successivi portarono alla firma, il 10 ottobre 2009 a Zurigo, dei Due Protocolli che prevedono la normalizzazione dei rapporti diplomatici e la riapertura delle frontiere tra i due paesi. In un solo anno i due storici nemici erano riusciti a raggiungere un’intesa che mostra chiaramente come entrambe le parti, per ragioni diverse, fossero alla ricerca di una normalizzazione dei rapporti.
Per la Turchia il riavvicinamento all’Armenia era l’occasione per dimostrare all’Occidente il suo impegno nel promuovere la pace e la stabilità nella Transcaucasia. Inoltre la riapertura dei confini avrebbe creato una nuova rotta commerciale ed energetica verso l’Azerbaijan e l’Asia Centrale alternativa a quella georgiana. La normalizzazione delle relazioni diplomatiche con l’Armenia era anche una delle precondizioni chieste ad Ankara per l’adesione alla UE.
Anche per l’Armenia la riapertura del confine turco avrebbe offerto una via per superare l’isolamento e la marginalizzazione regionale. L’apertura del confine avrebbe garantito sicuri benefici economici sia all’Armenia che alle province turche confinanti, tra le più povere ed arretrate dell’Anatolia (Kars, Iğdır, Agri, Van). L’Armenia, inoltre, avrebbe ridotto la propria dipendenza dalle reti di comunicazione terrestri e marittime georgiane seriamente danneggiate dai russi durante il conflitto.
Seppure buoni, i rapporti tra Georgia ed Armenia sono condizionati da sospetto e freddezza reciproca. La presenza militare russa in Armenia e l’alleanza tra i due paesi suscitavano inquietudine a Tiblisi; da parte sua Yerevan mostrava una certa irritazione per la politica di assimilazione attuata dalla Georgia nella regione dello Samtskhe Javakheti abitata in maggioranza da armeni.
Paradossalmente la firma dei Protocolli ha finito col mostrare la fragilità del riavvicinamento turco-armeno. Ankara e Yerevan prima e dopo la firma dei Protocolli sono state sottoposte a pesanti pressioni interne ed esterne. L’opposizione dell’Azerbaijan e della diaspora armena di fatto sono riuscite a congelare il processo. La normalizzazione delle relazioni tra i due paesi sia difficilmente potrà fare passi in avanti se entrambe le parti prima non abbiano avviato almeno un tentativo di risoluzione delle loro controversie con la diaspora armena e l’Azerbaijan. Entrambi i governi hanno mostrato di non avere né forza né volontà necessaria per scrollarsi di dosso le rispettive pressioni esterne.
Una sorta di malinteso sembra essersi verificato al momento della firma dei Protocolli. Ankara era convinta che l’Armenia sarebbe stata spinta ad intavolare trattative per una risoluzione della controversia con l’Azerbaijan; Yerevan, invece, riteneva che la firma dei Protocolli fosse slegata dalla questione del Nagorno Karabak/Artsakh, che doveva rimanere un affare esclusivo tra Armenia ed Azerbaijan.
Nel caso dell’Armenia la politica di “zero problemi con i vicini” ha evidenziato numerosi limiti. Nel momento in cui sono iniziate le trattative ad Ankara non si è tenuto conto di una molto più che probabile opposizione da parte azera, probabilmente si riteneva che la semplice firma dei Protocolli avrebbe spinto Yerevan a delle aperture che in effetti non vi sono state. Ne si è tenuto conto della forza che la diaspora esercita sulle scelte di politica estera dell’Armenia. I limiti di questa strategia sono emersi al momento della firma dei Protocolli.
Turchi ed azeri sono entrambi di stirpe e lingua turcofona, l’unica reale differenza tra i due popoli è nell’appartenenza a diverse correnti dell’Islam; mentre i turchi sono sunniti gli azeri sono sciiti; elemento quest’ultimo che colloca storicamente l’Azerbaijan nell’orbita persiana.
In Turchia i partiti di opposizione del CHP (Partito Repubblicano del Popolo) e dell’MHP (Partito del Movimento Nazionalista) hanno presentato all’opinione pubblica i Protocolli come un tradimento verso i fratelli azeri. Gli oppositori, inoltre, paventavano che la loro ratifica da parte del parlamento turco avrebbe con il tempo spinto l’Armenia a rivendicazioni territoriali.
In realtà ciò che ha maggiormente frenato il governo Erdoğan è stata la paura di vedere ridimensionati i grossi interessi economici che legano Turchia ed Azerbaijan. A nulla sono valse le rassicurazioni in merito fornite a Baku sia nei mesi precedenti la firma dei Protocolli che successivamente. Il timore di Baku è che la firma dei Protocolli con il conseguente riavvicinamento tra Turchia ed Armenia finisca con l’indebolire le proprie rivendicazioni sul Nagorno Karabakh/Artsakh.
Per la Turchia il ridimensionamento dei rapporti politici con l’Azerbaijan avrebbe conseguenze soprattutto sul rifornimento di gas naturale (GN). Ankara acquista da Baku oltre 6 miliardi di metri cubi di GN all’anno ad un prezzo ben al di sotto di quello sul mercato mondiale, così da poterlo rivendere ottenendo lauti guadagni. Inoltre la Turchia percepisce diverse centinaia di milioni di dollari l’anno per il transito dell’oleodotto TBC.
L’irritazione di Baku potrebbe mettere in discussione anche il rifornimento di GN all’Europa. Infatti il Nabucco dovrà essere riempito col GN dell’Azerbaijan e del Turkmenstan. Baku fornisce GN anche alla russa Gazprom che nel frattempo ha assicurato le autorità azere di poter acquistare tutto il suo GN. Nel caso in cui l’Azerbaijan optasse per altre soluzioni il progetto Nabucco sarebbe seriamente messo in pericolo.
Inoltre il venir meno della piattaforma azera renderebbe impossibile i tentativi di penetrazione economica di Ankara nel vasto spazio turcofono.
Anche governo armeno è stato sottoposto a pressioni interne ed esterne. A nulla sono valsi i tentativi del presidente Serzh Sargsyan di convincere la diaspora armena.
Per comprendere l’ostilità della diaspora occorre ricordare che le vittime del genocidio, “Grande Male” furono gli armeni cittadini dell’Impero Ottomano.
I drammatici eventi politici che tra la fine del primo conflitto mondiale e la metà degli anni venti sconvolsero la Russia ed il Caucaso, impedirono ai sopravvissuti di stabilirsi in ciò che rimaneva dell’Armenia storica costringendoli a rifugiarsi nel Vicino Oriente, in Europa e nelle Americhe. La maggioranza degli armeni della diaspora discende proprio dai sopravvissuti al “Grande Male.” A differenza dei loro connazionali in Armenia sono per ragioni familiari emotivamente più legati a quei tragici eventi e premono affinchè la comunità internazionale e la Turchia stessa riconosca come genocidio i massacri del 19915/1916 begin_of_the_skype_highlighting 19915/1916 end_of_the_skype_highlighting. Questo spiega perché le grandi organizzazioni della diaspora si siano opposte ai Protocolli senza un impegno turco a fare i conti col proprio passato.
Per l’Armenia la questione del genocidio doveva essere affrontata dalla Turchia e dalla diaspora in questo modo “astutamente” Yerevan poteva svincolarsi. Ma l’opposizione della diaspora ha avuto la meglio facilitata anche dalle titubanze e dai passi indietro fatti da Ankara.
Qualsiasi governo in Armenia è cosciente dell’importanza che la diaspora riveste per il paese. Nei difficilissimi anni novanta il suo sostegno economico e politico fu decisivo per la sopravvivenza stessa del paese. Tuttora gli aiuti e gli investimenti economici provenienti dalla diaspora sono fondamentali per l’economia armena. Inoltre la forte azione di lobby politica esercitata dalle grandi organizzazioni della diaspora in Russia e soprattutto negli Stati Uniti hanno garantito il mantenimento dello status quo.
È interessante notare come ultimamente negli USA la lobby ebraica e quella armena abbiano trovato un punto di convergenza proprio sulla Turchia. Entrambe hanno esercitato pressioni affinché il Congresso giunga ad un riconoscimento formale del genocidio armeno.
Storicamente la diaspora ebraica negli USA ha sempre svolto un’azione di lobby filo turca in funzione antiarmena, in considerazione degli stretti rapporti tra Israele e la Turchia. Il fatto che le organizzazioni ebraiche si siano avvicinate a quelle armene testimonia il forte deterioramento delle relazioni turco-israeliane.
Il sostanziale fallimento dei Protocolli dimostra come per entrambi i paesi la normalizzazione dei rapporti non rivesta ancora un’importanza fondamentale. Turchia ed Armenia continueranno ancora a percepirsi come dei “buchi neri.” La prima ha dimostrato che la sua politica estera all’insegna della creazione di buoni rapporti con i suoi vicini può continuare a fare a meno dell’Armenia. Quest’ultima, sebbene sia uno dei paesi che maggiormente abbia risentito degli effetti della crisi economica mondiale, mostra di poter fare a meno dell’apertura dei confini turchi.
Nel breve medio termine è probabile che non saranno fatti significativi passi in avanti. Da entrambe le parti il processo di riavvicinamento sembra, per il momento, essere stato accantonato in attesa di “tempi migliori”.
Un eventuale riavvicinamento dipenderà anche da come si evolverà la competizione energetica in corso nel Caucaso ed in Asia Centrale tra Stati Uniti e Russia, con la Turchia pronta a cogliere le opportunità che si presentano da entrambe le parti. I progetti del Nabucco e del South Stream potrebbero avere risvolti nelle relazioni turco-armene.
Se a prevalere sarà il progetto del Nabucco, che prevede il transito del gasdotto in Anatolia, la Turchia difficilmente potrà avere interesse a riavvicinarsi all’Armenia per non provocare l’irritazione di Baku. Viceversa nel caso in cui a prevalere sia il South Stream potrebbero prospettarsi nuove occasioni per un riavvicinamento poiché la dipendenza energetica da Baku sarebbe minore.
Turchia – Israele : un rapporto non più funzionale
Con i due accordi militari del 23 febbraio e del 26 agosto 1996, che prevedevano esercitazioni aereo-navali congiunte, condivisione di intelligence, scambio di personale militare e vendita di armi, le relazioni turco-israeliane raggiunsero il punto più alto. In Turchia i grandi promotori di questi accordi furono i militari all’epoca detentori del potere politico.
L’alleanza strategica tra Ankara e Tel Aviv aveva un carattere militare, rafforzata dalla comune percezione di essere circondati da nemici sia interni che esterni. Mentre la Turchia era alle prese con la guerriglia curda del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) nelle province curde del sud-est dell’Anatolia, Israele doveva affrontare l’ostilità dei palestinesi sia nei Territori Occupati che nello stesso stato ebraico. Inoltre entrambi percepivano il terrorismo islamico, i paesi arabi confinanti e l’Iran come minacce esistenziali in grado di mettere in pericolo le loro istituzioni laiche e democratiche (nel caso della Turchia) e la loro stessa esistenza (nel caso di Israele).
I grandi sponsor degli accordi turco-israeliani furono gli USA che in questo modo rafforzavano la loro posizione egemone nel Vicino Oriente. Una spinta decisiva all’alleanza venne dagli Accordi di Oslo (1993) tra Israele e l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) che crearono un clima di distensione tra arabi ed israeliani dando inizio al processo di pace nel Vicino Oriente. Ma il progressivo fallimento di tale processo e gli attentati dell’11 settembre avrebbero segnato una svolta condizionando indirettamente l’alleanza tra Ankara Tel Aviv.
Un primo scossone venne dalla vittoria elettorale dell’AKP (novembre 2002). La prima importante decisione in politica estera del nuovo governo fu il rifiuto di concedere agli USA il permesso di poter attaccare l’Iraq dal territorio turco. Turchia ed Israele, infatti, avevano una diversa visione sul futuro dell’Iraq. Ankara si opponeva sia all’invasione statunitense, ritenendola foriera di instabilità nella regione, sia all’ipotesi, più volte ventilata a Washington, di uno smembramento dello stato iracheno che avrebbe comportato la nascita di uno stato curdo nelle province del nord (Dahuk, Arbil, Al Sulaymaniyya).
Israele, invece, era favorevole sia all’invasione dell’Iraq che allo smembramento dello stato iracheno. La nascita di uno stato curdo nel nord dell’Iraq era un’ipotesi vista con grande favore poiché gli avrebbe permesso di poter disporre di una piattaforma strategica a cavallo tra Siria, Iran, Turchia e Mesopotamia.
In Israele la vittoria dell’AKP suscitò grande sospetto poiché si temeva di perdere l’unico vero alleato regionale. Ma la reazione non proprio positiva del governo Sharon si spiega anche con la difficile situazione in cui si trovava il paese alle prese con la Seconda Intifada. Israele fu colpita da una impressionante sequenza di attentati kamikaze che provocarono la morte ed il ferimento di decine di civili gettando il paese nel terrore.
Il governo Erdoğan, forte della crescita economica del paese e del consenso di una larga fetta dell’opinione pubblica nazionale, avvierà una serie di riforme politiche, peraltro richieste dalla UE, tese a ridimensionare il potere politico dei militari che erano stati i grandi sostenitori dell’alleanza con Israele. In questo modo indirettamente veniva ad allentarsi lo stesso legame turco-israeliano.
Mentre in Turchia il governo dell’AKP ha intrapreso la strada della democratizzazione interna e di un apertura diplomatica senza precedenti con i vicini arabi e con l’Iran al fine di creare un Vicino Oriente politicamente stabile ed economicamente integrato, Israele è stata sempre più risucchiata in una spirale di violenza che ha finito con l’accentuare il suo isolamento regionale ed internazionale: la Guerra del Libano del 2006, l’Operazione “Piombo Fuso” (dicembre 2008-gennaio 2009) nella Striscia d Gaza. Israele in questo modo è diventata sempre meno funzionale alla strategia ed alla visione turca di un Vicino Oriente stabile.
Le prime tensioni tra Ankara e Tel Aviv risalgono al 2004 in seguito all’assassinio dello sceicco Ahmed Yassin e di Abdel Aziz Rantisi, leader di Hamas. In quell’occasione Erdoğan criticò duramente l’operato israeliano; i rapporti migliorarono in seguito alla visita del primo ministro turco a Gerusalemme nel maggio 2005 ed al ritiro degli israeliani dalla Striscia di Gaza nell’estate dello stesso anno.
Nuove tensioni si ebbero in seguito al rifiuto israeliano di riconoscere la vittoria di Hamas alle elezioni parlamentari palestinesi del gennaio 2006 ed all’attacco al Libano da parte dello stato ebraico al fine di eliminare Hezbollah, il partito sciita libanese sostenuto dalla Siria e dall’Iran. Anche questa volta le incomprensioni furono superate tanto che la Turchia nel corso del 2008 si impegnò in una mediazione indiretta tra israeliani e siriani. Ma l’Operazione “Piombo Fuso” provocò l’interruzione delle trattative da parte siriana suscitando la delusione del governo turco.
Alla delusione si affiancò l’irritazione dovuta al fatto che alcuni giorni prima dell’inizio dell’Operazione il premier israeliano Ehud Olmert recatosi in visita ufficiale in Turchia non aveva comunicato l’intenzione di scatenare un’offensiva militare nella Striscia di Gaza.
Nel febbraio 2009, durante un dibattito pubblico al World Economic Forum di Davos, il premier Erdoğan ed il presidente Shimon Peres furono protagonisti di un clamoroso alterco. Nell’ottobre dello stesso anno il governo turco ritirò ad Israele l’invito a partecipare all’annuale esercitazione Aerea della NATO “Aquila Anatolica.”
Ma l’episodio che ha definitivamente incrinato i rapporti turco-israeliani è stato l’attacco in acque internazionali da parte dei reparti speciali israeliani alle navi della Freedom Flotilla che tentavano di trasportare aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. L’assalto alla nave ammiraglia Mavi Marmara, in cui rimasero uccisi nove cittadini turchi, suscitò grande sdegno nell’opinione pubblica turca. Poche settimane dopo l’accordo sul nucleare iraniano raggiunto grazie alla mediazione della Turchia e del Brasile, suscitò, questa volta, l’irritazione di Israele.
Le tensioni tra Ankara e Tel Aviv sono aumentate esponenzialmente dal lancio della politica “zero problemi con i vicini” del ministro degli esteri Davutoglu. Israele percepisce l’apertura turca verso Siria ed Iran pericolosa per la propria sicurezza nazionale. Le esercitazioni militari congiunte effettuate da Turchia e Siria nell’ultimo anno hanno acuito il nervosismo degli israeliani che temono che la tecnologia militare fornita alla Turchia possa finire nelle mani della Siria e dell’Iran.
Inoltre il fatto che il paese sia guidato da un governo di destra fortemente sbilanciato sulle posizioni estremiste di Ysrael Beiteinu (Israele Casa Nostra il partito del ministro degli esteri Avigdor Lieberman) e su quelle della “lobby dei coloni,” accentua la psicosi dell’accerchiamento, che si traduce nella costruzione di nuovi muri ed in continue minacce ai nemici vicini e lontani.
La complessità dei rapporti tra Ankara e Tel Aviv non può essere pienamente compresa se non si tiene conto anche dei numerosi interessi economici che legano i due paesi. Mentre le relazioni diplomatiche nell’ultimo decennio sono andate lentamente deteriorandosi, fino a subire un’accelerazione nel biennio 2009-2010, i rapporti commerciali, viceversa, si sono sempre più intensificati fino a raggiungere nel 2008 un interscambio di 3,4 miliardi di dollari. Nonostante la flessione registrata negli ultimi due anni la Turchia continua ad essere una delle più importanti mete turistiche all’estero per gli israeliani. Non è da escludere, tuttavia, che questi rapporti tesi alla lunga possano avere conseguenze negative sull’interscambio commerciale.
È ancora presto per capire se le relazioni turco-israeliane si siano avviate verso un inarrestabile declino. Per la Turchia l’obiettivo strategico è creare all’interno ed all’esterno dei propri confini un’area di stabilità. Tale politica entra in crisi ogni volta che due vicini o due paesi che rientrano nella “profondità strategica” hanno rapporti tesi. Israele rientra nello spazio geopolitico che il ministro degli esteri considera la “profondità strategica” turca.
La nuova politica estera di Ankara nel Vicino Oriente, quindi, non può tollerare lo stato di guerra strisciante di Israele nè tanto meno le continue minacce rivolte ad Hamas, ad Hezbollah, al Libano, alla Siria ed in particolare all’Iran. Eventuali conflitti nella regione scatenati da Tel Aviv ostacolerebbero gli obiettivi di Ankara che punta ad affermarsi politicamente e soprattutto economicamente come paese guida del Vicino Oriente. In un simile scenario qualunque azione israeliana che possa creare instabilità viene percepita da Ankara come pericolosa e lesiva per i propri interessi. Per questa serie di motivi il governo Erdogan tende a considerare non più funzionale per i propri interessi l’alleanza strategica con Israele. E pur non desiderando una rottura nelle relazioni, per implementare al meglio le sue strategie regionali ha bisogno che la Turchia non sia più percepita come “l’amica” dello stato ebraico.
Il ruolo di mediatore nei diversi conflitti che rientrano nell’area della sua profondità strategica presuppone un atteggiamento imparziale che garantisca tutte le parti in causa. L’orientamento filopalestinese della Turchia ha innervosito Israele che non intende riconoscere ad Ankara il ruolo di mediatore imparziale. Questo atteggiamento se da una parte è funzionale alla strategia regionale turca, dall’altra rischia di essere un ostacolo nei rapporti con Israele che mal tollera critiche sul suo operato nella Striscia di Gaza.
Israele rimane il principale fornitore di tecnologia militare dell’esercito turco. La vendita di tecnologia bellica è forse il pilastro su cui poggia l’alleanza per le numerose implicazioni politiche ed economiche. Qualora Israele si rifiutasse di vendere materiale bellico o la Turchia iniziasse ad acquistare armamenti altrove l’alleanza darebbe segni di evidente cedimento.
Uno dei fattori dell’attuale crisi nei rapporti tra questi antichi alleati sta nel fatto che entrambi i paesi sono retti da governi di destra in cui la componente religiosa e nazionalistica gioca un ruolo fondamentale.
Il partito islamico dell’AKP non può certo restare indifferente alla solidarietà che l’opinione pubblica nazionale, ed in particolare il proprio elettorato islamico, mostrano verso i palestinesi della Striscia di Gaza.
In Israele i partiti al governo del Likud e di Ysrael Beytenu tendono sempre più a considerare l’AKP come un partito fondamentalista il cui obiettivo finale sarebbe lo smantellamento delle istituzioni laiche e l’allontanamento del paese dall’Occidente e da Israele.
Bisogna comunque ricordare che la Turchia ed Israele sono due democrazie in cui è il popolo a decidere chi dovrà governare. In entrambi i paesi prima o poi gli attuali governi saranno sostituiti da altri di diverso colore ed orientamento politico. Di conseguenza anche la politica estera ed i rapporti tra i due paesi potrebbero subire dei cambiamenti.
Solo quando l’attuale governo dell’AKP verrà sostituito da un altro, (ad es. guidato CHP – Partito del Popolo Repubblicano, più vicino ai militari da sempre su posizioni filo israeliane) sarà possibile verificare se il nuovo corso di politica estera è stato assimilato dall’intero establishment politico turco oppure se esso verrà sostituito da un’altro che preveda un riavvicinamento ad Israele.
Allo stato attuale finché resteranno al potere gli attuali governi i rapporti tenderanno a rimanere freddi con il rischio di ulteriori tensioni. Tuttavia gli sconvolgimenti in corso nel mondo arabo nelle ultime settimane, il cui esito finale resta altamente incerto, potrebbero far saltare l’attuale strategia regionale del governo Erdoğan tarata sugli assetti attuali. Uno scenario plausibile potrebbe essere un riavvicinamento turco-israeliano come parte del riallineamento tra Turchia e Stati Uniti per far fronte ad una situazione di estrema emergenza che imporrebbe anche la collaborazione israeliana. Questa collaborazione di ordine tattico, dettata da eventi straordinari, non andrebbe in alcun modo a rinnegare il nuovo corso di politica estera del governo Erdoğan.