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Il Partito di Dio, Sa’ad Hariri e l’instabilità libanese

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In Libano la tensione era già al massimo, quando, lo scorso 12 gennaio, undici ministri  della coalizione guidata dal movimento sciita Hezbollah (Partito di Dio) hanno rassegnato le dimissioni.

La rottura è avvenuta mentre il primo ministro, Sa’ad Hariri, era in visita negli Stati Uniti, per cercare di risolvere la questione del Tribunale internazionale speciale per il Libano (STL), che sta indagando sull’omicidio,avvenuto  nel 2005,  dell’ex premier Rafik Hariri, padre di Sa’ad. Il Partito di Dio ha sempre negato qualsiasi  responsabilità e coinvolgimento nell’accaduto, e, da tempo, premeva sul governo perché non partecipasse più alle indagini, a suo avviso, orchestrate da Israele. Gli esponenti di Hezbollah in Parlamento avevano chiesto una riunione del Consiglio dei ministri urgente per decidere la fine di ogni sostegno al Tribunale da parte del Libano, il ritiro dei giudici libanesi e l’incriminazione dei “falsi testimoni”. Il primo ministro ha rigettato la richiesta e ciò ha provocato le dimissioni degli undici ministri.

Pochi giorni dopo l’inizio della crisi, il presidente libanese Michael Suleiman, ha conferito il mandato, per la formazione di un nuovo governo, al sunnita Najib Mikati. Il Parlamento ha votato a favore della decisione del presidente. Mikati, già primo ministro nel 2005, oltre ad essere  vicino alla Siria, è anche vicino al Partito di Dio. Il suo ingresso in politica risale al 1998, quando fu nominato al governo come ministro dei trasporti. Nel 2000 è stato eletto nell’Assemblea Nazionale della sua città natale, Tripoli. Mikati è, inoltre, il leader del “Blocco solidarietà che, nelle elezioni del 2004, ottenne due seggi in Parlamento.

A seguito della diffusione della notizia dell’incarico di Mikati, i sostenitori del movimento per il futuro di Hariri, sono scesi in piazza, accusando il Partito di Dio di voler mettere in atto un golpe. La folla si è radunata nelle strade della città portuale di Tripoli, roccaforte sunnita, e in altri distretti del Nord, lungo l’autostrada che collega Beirut con un’altra città portuale, Sidone, a Sud. Nella capitale le proteste sono state più contenute. I manifestanti hanno scandito slogan contro Hezbollah, il suo candidato e il “protettorato persiano”, in riferimento allo stretto legame tra il movimento sciita libanese e l’Iran. Strade bloccate, negozi e scuole chiusi, macchine e cassonetti dati alle fiamme, immagini di Hariri e del padre Rafik contro quelle di Mikati. Sa’ad Hariri, in televisione, ha fatto un appello alla calma: “Vi chiedo unità nazionale, il mio non è mai stato un percorso settario. La democrazia è il nostro rifugio, e non dobbiamo rinunciarci mai”.

Il segretario di stato Hilary Clinton ha dichiarato che la decisione di Suleiman, di affidare il governo a Mikati, avrà ripercussioni sui rapporti tra Stati Uniti e Libano. La Clinton ha tenuto, inoltre, a precisare che gli assassini di Rafik Hariri non possono e non devono rimanere impuniti. Le sue parole sono suonate come un chiaro invito al Tribunale internazionale, che sta indagando sulla vicenda, di proseguire le indagini.

Il ministro degli esteri francesi ha fatto sapere, tramite il suo portavoce Bernard Valero, che la soluzione all’attuale situazione in Libano deve essere basata sul dialogo, che ogni forma di violenza deve cessare urgentemente. Il presidente francese Sarkozy, ha chiesto alla Siria di rimanere fuori dal conflitto, nonostante gli stretti rapporti che intercorrono tra il presidente della repubblica siriana Bashar al-Asad e il neopremier libanese Mikati.

Hasan Nasr Allah, segretario del partito Hezbollah, sostiene che non sarà il Partito di Dio a guidare il prossimo governo, in quanto, Mikati non appartiene agli Hezbollah a tutti gli effetti. Lo stesso Mikati, che ha ottenuto il sostegno fondamentale del leader druso Walid Jumblatt, ha dichiarato alla Bbc di non essere “l’uomo di Hezbollah”, e di aver accettato l’incarico di primo ministro, non per creare problemi, ma per risolverli. Il suo primo obiettivo sarà fare gli interessi del Libano e del suo popolo, istaurando buone relazioni con la comunità internazionale.

Il Libano dopo gli accordi di Doha

Il Libano sembrava quasi rinato dopo le elezioni del 7 giugno 2009, la vita politica e sociale stava attraversando una fase di stabilità, pure tra molte contraddizioni.

La consultazione, la prima dopo la fine della presenza militare siriana, confermò la maggioranza dello schieramento filo-occidentale “14 marzo”, guidato dal Movimento del Futuro del sunnita Sa’ad Hariri , composto dal Partito Progressista Socialista del druso Walid Jumblatt, (dal quale poi si è distaccato), le Forze Libanesi di Samir Geagea e il Partito delle Falangi Libanesi di Amin Gemayel,  che con il 45,2% dei consensi, ottenne 71 seggi. L’opposizione della coalizione filo-iraniana e, filo-siriana “8 marzo”, formata dai due maggiori partiti sciiti Amal di Nabih Berri ed Hezbollah di Hasan Nasr Allah e dal Movimento Patriottico Libero del cristiano maronita Michel Aoun, pur avendo realizzato il 54,8% dei voti, mantenne i 57 seggi dell’assemblea uscente.

La legge elettorale libanese risale al 1960, ed è poi stata modificata con gli accordi di Doha, resi noti il 21 maggio 2008, e sottoscritti da Hezbollah, Hariri, maroniti anti- Aoun ed i filo-occidentali Drusi. Gli accordi hanno diviso, appena resi pubblici, l’opinione di analisti e politici. Una parte li ha visti come una svolta permanente per il Libano, l’altra come una tregua temporanea, in quanto non venivano affrontati i problemi chiave del Paese.

I principali punti degli accordi di Doha prevedevano l’elezione del generale Michael Suleiman come presidente (eletto il 25 maggio 2008). La formazione di un Governo di unità nazionale di 30 ministri, distribuiti come segue: 16 deputati delle forze governative, 11 dell’opposizione e tre ministri nominati dal Presidente, i quali  provvedono che nessuno dei Ministri si dimetta o intralci il lavoro del Governo. Se i ministri disapprovano la selezione del nuovo comandante dell’Esercito, questi  deve essere messo ai voti in base all’articolo 65 della Costituzione. Comunque, finché l’opposizione controlla 11 voti, i due terzi dei voti richiesti per ogni decisione sono impossibili da raggiungere senza consenso. Garanzia a non usare le armi per raggiungere obiettivi politici.

In ogni caso, rispettare celermente tali punti degli accordi, non si rivelò un compito semplice per il primo ministro designato Hariri. Dopo lunghe trattative, durate ben cinque mesi, Hariri riuscì, l’11 dicembre 2009, nell’impresa di costituire un governo di unità nazionale composto da 30 ministeri così ripartiti: quindici alla maggioranza, dieci all’opposizione capeggiata dallo sciita Partito di Dio, e cinque, tra i quali gli Interni e la Difesa, a personalità indipendenti scelti personalmente dal Capo dello Stato, Suleiman.

I risultati elettorali del 7 giugno 2009 vanno comunque visti anche attraverso l’Accordo di Taif, l’intesa firmata il 22 ottobre 1989 delle varie comunità etniche libanesi. Dopo 15 anni di guerra civile,esse  hanno tentato di fare del confessionalismo l’elemento cardine del sistema politico del Paese. L’Accordo ha stabilito un assetto istituzionale, giuridico ed amministrativo in cui il principio ordinatore si basa sul peso demografico e sociale dell’appartenenza religiosa, con 64 seggi ognuno da suddividere all’interno delle rispettive confessioni religiose: 34 deputati cristiano maroniti, 27 sunniti e 27 sciiti, 14 greco ortodossi, 8 drusi, 5 armeno ortodossi, 2 alawiti, un armeno, un protestante ed uno rappresentanza per ogni altra minoranza. Bisogna poi ricordare che, proprio per un’equa divisione dei poteri, la Costituzione riserva comunque la Presidenza della Repubblica ad un cristiano maronita, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ad un musulmano sunnita e quella della Camera dei Deputati ad uno sciita.

Un incerto 2011

Bisogna tener presente, alla luce dei recenti avvenimenti, come lo scontro, almeno tra le forze politiche sia fermo e immobile. La scelta è stata dettata, probabilmente, sia dal fatto che in un Paese di forti passioni, come il Libano, qualsiasi mossa falsa potrebbe scatenare una guerra civile; sia dal fatto che, nessun partito o movimento politico libanese può competere autonomamente con Hezbollah.

Nessuna soluzione sembra comunque poter essere raggiunta in tempi brevi. Anzi, tempi notoriamente lunghi delle diplomazie cercheranno di portare in meno di un mese il Libano verso un accordo comune fra le parti politiche. Meno di un mese solo perché, fra circa 30 giorni, verranno resi pubblici i capi di accusa contro i presunti assassini dell’ex premier Hariri.

La posizione di Hezbollah si è ulteriormente consolidata nel corso del 2010 ed ormai, Nasr Allah parla sempre più, a torto o a ragione, come un vero e proprio capo di Stato. Non a caso i mediatori turchi e del Qatar hanno visitato il leader sciita subito dopo aver incontrato il presidente della Repubblica Michel Suleiman, il dimissionario premier Sa’ad Hariri e lo speaker del Parlamento Nabih Berri. Nasrallah viene trattato come il quarto, ma forse più importante, pilastro della traballante repubblica libanese.

Tuttavia, come già evidenziato, i segnali giunti finora dalle cronache locali non sembrano andare nella direzione della guerra civile, tanto che l’autorevole quotidiano in lingua inglese” Daily Star Lebanon” ha sottolineato, in un editoriale, come il confronto si sia finora svolto secondo le regole democratiche previste dalla legge libanese.

*Oriana Costanzo è studente in Scienze politiche e della comunicazione (Università LUISS di Roma)


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