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Giordania: gennaio nero per re Abdallah

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Mentre in Tunisia si consumava quello che da molti è stato definito un “colpo di stato incruento” (anche se le sessanta vittime ed il numero imprecisato di feriti durante gli scontri con le forze dell’ordine sembrano rendere la definizione non totalmente calzante), dall’altra parte del Mediterraneo, nel versante asiatico del mondo arabo, un altro governo si trova a dover affrontare le proteste della popolazione contro la povertà, la disoccupazione e l’ascesa dei prezzi dei beni di prima necessità. Si tratta del Regno Hashemita di Giordania.

I manifestanti giordani si sono riversati, lo scorso 14 gennaio, per le strade della capitale Amman, di Maan, Karak, Slat, Irbid e di altre città del paese, chiedendo le dimissioni del governo e del primo ministro Samir Rifai. Le manifestazioni, guidate dai sindacati e dai partiti di sinistra locali, hanno visto anche la partecipazione del partito locale affiliato ai Fratelli Musulmani, il Fronte Islamico di Azione, un partito tollerato dalla monarchia Hashemita che conta un’importante presenza nel parlamento giordano. Sembra insomma che tutte le forze politiche di opposizione al governo siano scese in piazza cavalcando la rabbia della popolazione in un momento di crisi e di difficoltà. D’altra parte, la Giordania, assieme ad altri paesi dell’area e del mondo, sta subendo da un paio d’anni i contraccolpi di una crisi globale giunta in un momento in cui il paese godeva di una forte crescita del PIL, malgrado la sua scarsezza di risorse.

Un profilo economico della Giordania.

Secondo le stime dell’OCSE, l’economia giordana è tra le più piccole del Medio Oriente. Il Regno Hashemita conta una popolazione di poco meno di sei milioni di abitanti con un reddito medio pro capite di meno di quattromila dollari.

Il paese è dotato di insufficienti riserve d’acqua, petrolio e altre risorse naturali. Il tessuto industriale è ancora poco sviluppato e le aree coltivabili sono limitate. Altre sfide economiche, come gli alti tassi di povertà, disoccupazione, inflazione e un largo deficit di bilancio spiegano la cronica dipendenza, da parte del governo, dall’assistenza esterna. Dal momento del suo insediamento al trono nel 1999, il re Abdallah ha intrapreso significanti riforme economiche, quali una maggiore apertura dei commerci, la privatizzazione delle compagnie statali e l’eliminazione dei sussidi per i carburanti, incentivando così negli ultimi anni la crescita economica attraverso l’attrazione di investimenti stranieri e la creazione di posti di lavoro.

Malgrado l’instabilità dell’area in cui la Giordania si trova, l’economia del paese è cresciuta nell’ultimo decennio in modo costante. I dati del Fondo Monetario Internazionale mostrano come la Giordania abbia visto, tra il 2005 e il 2009, un aumento del PIL medio del 6% circa e una riduzione del debito estero dal 56,5% al 23,3% del PIL. Sono aumentate le riserve internazionali così come gli Investimenti Diretti Esteri, soprattutto da parte di investitori del Golfo Persico, nonostante la situazione di incertezza regionale.

La Giordania sembra quindi aver saputo sfruttare alcune circostanze favorevoli, ovviando così al limite rappresentato dalle piccole dimensioni del suo mercato interno. Tra queste condizioni, è opportuno citare la stabilità politica ed economica del paese, che assume tanta più importanza nell’ambito geografico in cui esso si trova a dover interagire, il Medio Oriente; inoltre, la crescita sembra aver premiato le politiche governative fortemente riformiste ed aperte agli investimenti esteri e agli scambi, un buon livello dei servizi essenziali e la disponibilità di personale qualificato, grazie all’elevato livello medio dell’istruzione universitaria. Nel 2000, la Giordania ha siglato un Accordo di Libero Scambio con gli Stati Uniti, dando un netto impulso alle esportazioni del paese oltreoceano, che in soli tre anni hanno superato il flusso di importazioni, fino ad allora preponderanti. La vicinanza politico-commerciale con gli Stati Uniti, geografica con l’Iraq, nonché buoni rapporti con gli altri vicini arabi e con lo Stato di Israele, con cui la Giordania ha siglato un trattato di pace nel 1994, hanno permesso al Regno Hashemita di proporsi come un hub regionale per tutta l’area mediorientale e di attrarre così investimenti esteri, che si sono andati ad assommare al flusso unilaterale delle rimesse degli emigrati all’estero.

Malgrado le ottime performances dell’economia giordana per quasi tutto il primo decennio del 2000, il rallentamento economico globale in seguito alla crisi del 2008 ha affossato la crescita del PIL giordano, attaccando fortemente settori di esportazione come la manifattura e i prodotti delle miniere. Dopo anni di incremento, nel primo semestre del 2009 il tasso di crescita dell’economia giordana si è quasi dimezzato e il commercio con l’estero, vitale per l’economia del paese, ha subito una forte contrazione. Nel 2008, le autorità giordane registravano una crescita del prodotto interno lordo pari al 5,8%, mentre nell’anno successivo il medesimo indice ha visto un tragico collasso, che lo ha portato al 2,4%. Nel giugno del 2010 il tasso di crescita del PIL si è attestato al 3%: un tale dato è impressionante se confrontato con lo stesso dato del giugno 2008, quando il PIL giordano registrava una crescita dell’8,6%.

Il deficit commerciale giordano si è ampliato di 7 punti percentuali nel 2010, arrivando a novembre a 5,38 miliardi di dinari (circa 7,6 miliardi di dollari). Le importazioni del paese hanno subito un incremento medio dell’8% nell’ultimo anno, con punte toccate dalle risorse utili al sostentamento dello sviluppo economico, come petrolio, plastica e macchinari, che hanno subito un incremento del 13-15%.

Di contro, tra il 2009 e il 2010 il rallentamento dell’economia globale ha fatto crollare la domanda di prodotti giordani, così come l’afflusso dei capitali esteri di investimento provenienti dal Golfo e la contrazione delle rimesse degli emigrati. Evidentemente, la forte dipendenza dell’economia giordana dall’estero, soprattutto dagli Stati Uniti, si è rivelata alquanto fragile e impreparata nei confronti della crisi che sta toccando, con conseguenze diverse, tutti i paesi del mondo.

I palliativi del governo giordano non bastano.

Nell’anno appena terminato, il governo giordano ha approvato due bilanci supplementari, non riuscendo tuttavia a realizzare i tagli fiscali previsti per il 2010 a causa della necessità di maggiori entrate per coprire le uscite in eccesso. Il deficit di bilancio sembra destinato a restare alto, al 5-6% del prodotto interno lordo, e molti analisti stimano che Amman continuerà a dipendere dall’assistenza esterna per finanziare il buco anche nel 2011.

Nei primi giorni del 2011, circolavano notizie di un re Abdallah particolarmente preoccupato da alcuni messaggi comparsi su diversi social network riguardanti l’organizzazione di una manifestazione ad Amman, e in altre città, contro l’aumento del costo della vita e la disoccupazione. Per evitare tali malcontenti, il governo giordano aveva varato a tempo di record un piano da 169 milioni di dollari mirante ad ammortizzare i rincari dei prezzi dei beni di prima necessità, come lo zucchero o l’orzo, e tramite la riduzione o l’imposizione di un tetto sui prezzi dei generi alimentari. Inoltre, il governo aveva stabilito una diminuzione del prezzo del cherosene e del petrolio.

Tuttavia, le contromisure attuate in tutta fretta dal governo non hanno impedito che il giorno 14 gennaio migliaia di giordani scendessero nelle piazze delle principali città del paese per protestare contro l’inflazione, giunta al 6,1%, e le ingenti imposizioni fiscali, nonché contro la mancanza di lavoro nel paese. I portavoce dei manifestanti hanno giudicato il piano attuato dal governo poco efficace e hanno chiesto le dimissioni del Primo Ministro Samir Rifai, che gli slogan scanditi dalla folla definivano “codardo”. Polizia e agenti di sicurezza in borghese hanno circondato i manifestanti per contenere le proteste, e non sono stati riportati casi di scontri o di arresti.

Tuttavia, le proteste e le voci che si sono levate e si stanno levando contro le politiche governative di contenimento della crisi non possono lasciare il governo indifferente. Sebbene le manifestazioni abbiano mantenuto toni pacifici e non siano sfociate in atti di violenza, favorite anche da regimi di pubblica sicurezza meno repressivi rispetto ad altri paesi, le istanze provenienti dalla popolazione esigono ascolto e soprattutto risposte più efficaci.

Il persistere di una tale situazione precaria potrebbe spingere le masse a dimostrazioni sempre più insistenti, non solo nel numero, ma anche nella forma, e mettere il governo di fronte ad ingenti difficoltà.

Quali soluzioni per il governo giordano?

I problemi della Giordania sono emersi nell’attuale congiuntura economica, ma non sono certamente nati in una tale situazione. Piuttosto, essi appartengono alla struttura dell’economia giordana e alla sua impostazione di sviluppo.

Se le riforme attuate dal re Abdallah hanno indubbiamente contribuito ad aprire il paese al commercio estero, sviluppando un’importante economia orientata all’esportazione, lo hanno reso tuttavia troppo dipendente da fattori esterni e difficilmente controllabili.

L’aggancio dell’economia e della moneta giordana al maggiore consumatore mondiale, gli Stati Uniti, e al suo andamento economico, ha certamente favorito la crescita e l’incremento della produzione economica in Giordania per tutti i primi anni del 2000. Finché l’aumento della domanda di beni proveniente dall’estero, e quindi delle esportazioni giordane, mostrava un incremento maggiore rispetto all’aumento delle importazioni del paese, il meccanismo dell’economia export-oriented permetteva ampi margini di crescita. Tuttavia, in seguito alla crisi del 2008 e al conseguente rallentamento del commercio globale, le esportazioni giordane hanno subito un forte collasso, mentre il contemporaneo aumento del prezzo delle materie prime importate, dovuto all’incremento della richiesta globale da parte dei nuovi attori economici emergenti, ha di fatto sballato l’equilibrio della crescita giordana.

In un tale scenario, appare evidente come il sistema economico della Giordania risulti inadeguato nella congiuntura attuale e di come esso necessiti di una radicale riforma. Lo stanziamento di fondi o i piani di abbassamento temporaneo dei prezzi dei beni costituiscono contromisure efficaci per calmare momentaneamente le proteste, ma certamente non sono la soluzione ai problemi di Amman. Piuttosto, il sistema economico del paese necessita di una radicale revisione che riconsideri innanzitutto l’allacciamento preferenziale agli Stati Uniti e che si impegni piuttosto nella ricerca di nuovi mercati di sbocco per i propri prodotti. Inoltre, il governo si dovrebbe dedicare all’attuazione di una serie di misure in grado di sviluppare nuovi posti di lavoro e, con essi, portare alla creazione di un sostanziale mercato interno che ancora sembra incompiuto.

Un’altra priorità, poi, è rappresentata dai sistemi di approvvigionamento energetico. La Giordania sta attualmente esplorando nuove forme di produzione di energia e sembra soprattutto orientata ad uno sviluppo del nucleare per colmare la scarsezza di riserve energetiche. La sua posizione di partnership con gli Stati Uniti dovrebbe poter favorire uno sviluppo in tale senso, anche se non è certo che il vicino israeliano possa accogliere con particolare favore la presenza di altri impianti nucleari, oltre ai propri, nella regine mediorientale.

In secondo luogo, l’approvvigionamento idrico. La Giordania è caratterizzata da una forte scarsità d’acqua, e, come è noto, le risorse idriche costituiscono un elemento fondamentale non solo per la sopravvivenza della popolazione, ma anche per qualsiasi tipo di sviluppo economico. Il bacino del Giordano, e il suo principale affluente, lo Yarmouk, rappresentano per la Giordania una fonte di approvvigionamento idrico fondamentale. Queste fonti, tuttavia, sono di grande importanza anche per Israele. Il Regno Hashemita, incapace di rivaleggiare economicamente e militarmente con Israele, si è lanciato in passato in una cooperazione idraulica con il potente vicino, che resta detentore della tecnologia più all’avanguardia in materia e della supremazia politica sui bacini del Golan, sul Giordano, sul lago di Tiberiade e su parte dello Yarmouk. Così il trattato di pace tra i due Paesi, stipulato nel 1994, prevedeva il trasferimento da parte di Israele di duecento milioni di metri cubi d’acqua, provenienti da corsi d’acqua superficiali sotto il suo controllo. Sebbene gli accordi tra i due paesi non siano stati pienamente rispettati e la collaborazione israelo-giordana abbia attraversato momenti difficili, tuttavia la Giordania continua a cooperare con il vicino israeliano per soddisfare i propri bisogni di risorse idriche. Tale scelta appare attualmente obbligata, poiché, oltre ai bacini in comune con Israele, la Giordania può contare soltanto sull’apporto di falde idriche sotterranee.

In generale, la collaborazione con i vicini potrebbe essere la chiave di soluzione dei problemi del paese. La Giordania, infatti, potrebbe trovare nuova vitalità economica se rafforzasse e sviluppasse ulteriormente il proprio ruolo di paese mediatore tra le istanze dei vicini arabi e il difficile vicino israeliano. Attraverso il consolidamento della propria posizione quale paese stabile e non ostile ai propri vicini, unico caso tra i paesi del Medio Oriente, e tramite giusti investimenti verso lo sviluppo di un’economia regionale, di cui la Giordania costituirebbe il centro catalizzatore, il regno Hashemita potrebbe aspirare alla creazione di un mercato intra-regionale, più ampio di quello interno e probabilmente più vivace, che andrebbe e a carburare così il proprio sistema economico.

Un tale scenario appare certamente di ardua attuazione, soprattutto a causa delle diverse e profonde instabilità che caratterizzano i vicini della Giordania, e, in generale, le sorti della regione. Tuttavia, l’abbandono del ruolo di comprimario degli Stati Uniti nella regione a vantaggio di una politica economica proattiva sulla scena internazionale fornirebbe alla Giordania la possibilità di sfruttare le proprie forze, costituite da posizione geografica centrale e da mancanza di relazioni ostili con i vicini, e di ovviare così agli effetti negativi della scarsità di risorse sulla propria economia.

Giovanni Andriolo è dottore magistrale in Relazioni internazionali e tutela dei diritti umani (Università degli studi di Torino).


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